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Malati di ‘ndrangheta

settembre 26, 2011

Qualcuno, addirittura, ha chiesto la perizia psichiatrica. Carlo Antonio Chiriaco è un caso più unico che raro nella storia giudiziaria dei processi alla ‘ndrangheta. Chiriaco è il direttore dell’Azienda Sanitaria di Pavia tratto in arresto nell’ambito dell’operazione “Crimine”, condotta sull’asse Milano-Reggio Calabria: l’uomo viene ammanettato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione. Sarebbe il manager in contatto con i presunti boss Pino Neri e Cosimo Barranca, egemoni nel nord Italia e, in particolare, in Lombardia. Fin dall’interrogatorio di garanzia, tenutosi, come disposto dalla procedura, pochi giorni dopo dalla maxiretata milanese, Chiriaco (nella foto prima dell’arresto e alla prima udienza del processo) afferma di essere sempre stato morbosamente affascinato dalla ‘ndrangheta. Una “malattia” che lo avrebbe affetto fin da giovane quando, fingendosi boss, si sarebbe compiaciuto dell’effetto di rispetto e timore provocato nel prossimo: su questa curiosa sindrome, i legali di Chiriaco hanno peraltro centrato la propria difesa, affidando una perizia allo psichiatra e criminologo Adolfo Francia.

Ma esistono davvero i “malati di ‘ndrangheta”?

Qualcuno dice che la Calabria, Reggio Calabria, in particolare, che, proprio di recente, nel corso della rassegna “Tabularasa”, è stata definita dal Procuratore Giuseppe Pignatone la “capitale della ‘ndrangheta”, sia piena zeppa di uomini e donne “afflitti” da tale sindrome. Un comportamento che si manifesterebbe attraverso la smania di dimostrare, ostentare, potere e senso del rispetto: tutti (falsi) valori che la ‘ndrangheta propugna da generazioni. Spesso, anche gli investigatori, concentrano le proprie indagini sulla criminalità organizzata sulla “logica del profitto”, andando a colpire, con grande successo, i patrimoni mafiosi. Un’azione indispensabile che, però, non deve far dimenticare che la ‘ndrangheta, come le altre mafie, ha, invece, una grande voglia, un’ossessione, di potere. Testimonianza del fatto che, come emerso anche di recente, le cosche mettano il proprio zampino oltre che sulle elezioni, anche di piccoli centri, pure sull’organizzazione di feste patronali, soprattutto se a sfondo religioso. Insomma, “cumandari è megghiu chi futtiri”. Quella dei “malati di ‘ndrangheta” è una sindrome che, volendosi sganciare dal contesto calabrese, potrebbe essere assimilata al cosiddetto “fascino del male” che ha ispirato, negli anni, una vasta letteratura e cinematografia.

Ma fin qui saremmo nel “niente di nuovo”.

Ciò che, però, colpisce di più è che spesso la ‘ndrangheta o, comunque, l’atteggiamento mafioso più in generale, non sia visto come “male”, come disvalore, ma, anzi, uno status da emulare. Un esempio piuttosto calzante, a prescindere dai tanti risvolti oscuri non ancora emersi dalle indagini, potrebbe essere il commercialista Giovanni Zumbo. Da ex confidente dei servizi segreti, da amministratore giudiziario per conto dei Tribunali di Palmi e Reggio Calabria, il 44enne professionista reggino diventa “gola profonda” dei boss Giovanni Ficara e Giuseppe Pelle, con riferimento proprio alle risultanze investigative dell’indagine “Crimine”. Riportando alla memoria il proprio passato al servizio dello Stato e degli apparati investigativi, Zumbo afferma: “Ho fatto parte di… e faccio parte tuttora di un sistema che è molto, molto più vasto di quello che […] ma vi dico una cosa e ve la dico in tutta onestà: sunnu i peggio porcarusi du mundu e io che mi sento una persona onesta e sono onesto e so di essere onesto… molte volte mi trovo a sentire… a dovere fare… non a fare a fare, perché non me lo possono imporre, ma a sentire determinate porcherie che a me mi viene il freddo!”. Un concetto che va a braccetto con il consueto insulto, “sbirri”, offerto, di tanto in tanto anche ai giornalisti. Ma il passaggio più interessante per quanto riguarda Zumbo, alla sbarra per concorso esterno in associazione mafiosa, lo pronunciano i boss Ficara e Pelle in un colloquio, in cui si fa riferimento al fatto che il commercialista-spione non vorrebbe nulla in cambio delle proprie soffiate:

Ficara: E allora mi racconta questi discorsi qua! Perché altro, girano i soldi e io non… lo sapete perché vi dico, perché non vuole soldi, non vuole niente, se gli voglio portare io una bottiglia…
Pelle: Gliela portate, sennò niente.
Ficara: …Se non ché, lo fa per amicizia, perché è “riggitano”… 

Zumbo, dunque, si metterebbe al servizio delle cosche, per puro spirito “riggitano”: “Da voi non vuole niente sicuro […] neanche un pasticcino, niente! […] è un ragazzo a posto” dice ancora Ficara a Pelle. Zumbo potrebbe incarnare una certa fetta del reggino o calabrese medio che non disdegna il cocktail insieme al rampollo di ‘ndrangheta: lo stesso Zumbo, in giovane età, sarebbe stato vicino di casa di una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta reggina. Sarebbe cresciuto insieme ai ragazzetti rampanti (molti dei quali finiti in carcere) ed evidentemente ne sarebbe rimasto “contagiato”.

E Reggio Calabria, in particolare, non disdegnerebbe il caffè, l’aperitivo, il drink, con esponenti di famiglie assai in vista dal punto di vista criminale. Basta fare un giro in discoteca o nei bar, per capirlo, oppure, basta leggere cosa dice il collaboratore di giustizia Roberto Moio della famiglia De Stefano: […] conoscono, praticamente frequentano tutti, tutta la gente, la Reggio-Bene, conoscono avvocati, conoscono notai, figli di notai, figli di avvocati  […] C’è Dimitri non lo vede mai con un Fracapane per dire, oppure uno come me, Dimitri sempre, u viri parlare cu’ figghiu du’ nutaio, cu’ figghiu du’ dottore, cu’ figghiu di l’avvocato”. La società, dunque, non nega il consenso, ma, anzi, lo accresce. Lo stesso Peppe De Stefano, colui che viene indicato dagli inquirenti come il capo indiscusso (insieme a Pasquale Condello e Pasquale Libri) della ‘ndrangheta reggina, ascoltato dal pm Giuseppe Lombardo racconta un episodio che vale molto nel disegno della Reggio Calabria degli ultimi trent’anni:

De Stefano – […] una volta è uscito mio padre nell’82 dal carcere e in un negozio di scarpe ha trovato sessanta milioni di lire di conto dottore e noi figli camminavamo con le scarpe bucate
Dott. Lombardo – c’era gente che comprava a carico, a nome vostro
De Stefano – a storia dei De Stefano è chista..nel 74 da Cammara dopo la morte di mio zio Giovanni c’era gente che andava con gli assegni firmati Giovanni De Stefano e si comprava le scarpe dottore Lombardo e mio padre era vivo per dirvi..perché dei De Stefano si sente parlare ma si deve ascoltare..

E si tratta di qualcosa che va ben oltre la storiella di contesto. Perché in Calabria, perché a Reggio Calabria, camminare con le scarpe acquistate da un De Stefano, da un Condello, da un Libri, eccetera, eccetera, ha un significato umano, antropologico, che va ben oltre il gesto di mettere un piede davanti all’altro. E’ la città che si consegna in determinate mani.

Ritornando all’attualità, un altro possibile esempio sarebbe l’imprenditore Antonino Schiavone, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del processo “Artemisia”. Schiavone è un imprenditore piuttosto affermato nel settore della vendita di fuochi d’artificio: la sua ditta è tra le più ambite dalle Amministrazioni Comunali della provincia reggina, compreso lo stesso Comune di Reggio Calabria che, soprattutto negli anni di Giuseppe Scopelliti, commissiona alla ditta di Schiavone diversi lavori nell’ambito delle feste patronali. Schiavone, però, non esiterebbe a rivolgersi alla famiglia Gioffrè di Seminara per ottenere l’appalto per la festa patronale del luogo: assumerebbe nella propria ditta un membro della famiglia Gioffrè e si farebbe accompagnare proprio da uno dei Gioffrè quando ci sarebbe da dirimere qualche “controversia” con ditte vicine ad altre famiglie. Lo stesso pm Roberto Di Palma, che ha condotto l’accusa nel procedimento, ha sottolineato, nella propria requisitoria, un assunto fondamentale: “Antonino Schiavone non è un mafioso”. Sarebbe, però, un imprenditore “amico degli amici”, come sostenuto da un collaboratore di giustizia, Vittorio Fregona: un imprenditore che, nonostante la propria predominanza nel settore, dovuta alla qualità del proprio lavoro, si avvicinerebbe così tanto a un clan tanto da essere condannato, seppur in primo grado, per concorso esterno in associazione mafiosa. Ed è interessante la distinzione, assai pratica e concreta, che il pm Di Palma fornisce dei cosiddetti “malati di ‘ndrangheta” nella propria requisitoria: “Questa zona grigia dobbiamo scinderla in due aspetti se vogliamo proprio sottilizzare: quelli che ammiccano alla ‘ndrangheta, no? Quelli che “compare”, “compare qui”, “compare lì”, quante volte li abbiamo sentiti, in dialetto calabrese sapete come si chiamano? I malati di ‘ndrangheta, quelli che ‘ndranghetiano, cioè quelli che alla fine dei conti non avrebbero niente a che vedere con la ‘ndrangheta, no? E che però si sentono, si sentono quasi quasi importanti e quasi quasi affascinati da questo mondo, come se far parte di questo mondo potesse in qualche maniera renderli più importanti. In fondo sono soltanto dei frustrati che cercano una collocazione. E questo, voglio dire, molto spesso lo vediamo tra fasce culturali anche elevate, anche professionisti che hanno questo atteggiamento culturale. E poi ci sono quelli che invece tutto sommato sono più scaltri, che al di là di questi atteggiamenti, voglio dire, di fascino sanno che devono appoggiarsi per poter raggiungere determinati obiettivi”. Ne è un esempio il collaboratore Cosimo Virgiglio, pentito dopo il coinvolgimento nell’indagine “Maestro”, il quale racconta della tendenza di avvicinarsi, quasi naturalmente, alle cosche, da parte di chi decide di fare impresa in Calabria. Insomma, anche per poche migliaia di euro, l’importanza sarebbe far parte di determinati circuiti. L’importante è camminare a braccetto del potente di turno: i soldi, il successo, prima o poi arriveranno.

“Se io fossi Governatore della Calabria, abolirei per legge la parola “compare”, si risolverebbero molti problemi” dice, provocatoriamente, un giovane investigatore non calabrese. E il problema, forse, sta anche nelle parole, nei modi di fare, nei modi di dire, come “a disposizione”. Storica divenne la frase pronunciata nei confronti di Mimmo Crea, l’ex consigliere regionale condannato in primo grado a undici anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa con le cosche Morabito, Talia e Cordì. A colloquio con un giornalista di “Annozero”, pensando di non essere registrato, Crea si lasciò andare ad alcune frasi piuttosto pesanti nei confronti di Franco Fortugno, venendo, peraltro, interrotto, dal consigliere regionale Franco Morelli, in quel tempo in quota Alleanza Nazionale, che lo apostrofò con una frase emblematica: “U compari du compari è tò compari”.

E non è solo ignoranza. O, meglio, non è solo ignoranza “scolastica”. A essere afflitti dalla “malattia” sono, spesso, anche professionisti, insomma, persone “con le scuole”: un atteggiamento che, insieme ai tanti, tantissimi, interessi economici, contribuisce ad alimentare lo squadrone dei “colletti bianchi”, l’area della “zona grigia”. Senza coloro i quali che, in un modo o in un altro, sono affascinati dalla ‘ndrangheta, le cosche, probabilmente, sarebbero più deboli: senza la possibilità di entrare nei salotti, la ‘ndrangheta sarebbe rimasta probabilmente alla stregua della banda di Renato Vallanzasca. Ed è tutto già certificato in atti d’indagine, come la frase contenuta nel fascicolo “Primavera”, pronunciata da un affiliato alle cosche di San Luca nei confronti di Antonio Cordì, impegnato nella faida di Locri con i Cataldo: “Totò stai attento che quando il popolo vi va contro perdete quello che avete fatto in questi trent’anni! Lo perdete… Quando si buca la saracinesca, a quello gli bruciano la macchina, a quello un’altra cosa, il popolo incomincia a ribellarsi”. In Calabria, a Reggio Calabria, però, in pochi possono dirsi effettivamente “sani”. Talvolta è una questione di sfiducia nello Stato, identificato, a tutti gli effetti con la ‘ndrangheta (che sul territorio è ben più presente delle Istituzioni). Talvolta, invece, è una questione di Dna che si esplicita nei gesti quotidiani più naturali, come la lotta, senza esclusione di colpi, per offrire un caffè in un bar. Come se il prestigio di un individuo si misurasse dal numero di caffè offerti nell’arco di una giornata. Comportamenti o modi di essere che sfociano spesso nel comico e nel kitsch: si va dai vetri oscurati sulle automobili, passando per indumenti e accessori pacchiani, fino alle tarantelle “sparate” tramite impianti stereo da discoteca. Una categoria di soggetti che non sfugge a un attento osservatore come il procuratore aggiunto Nicola Gratteri che, nel corso della seconda serata della rassegna “Tabularasa”, afferma: “Quelli che vedete per strada con le camicie aperte e le collane al collo sono solo garzoni di ‘ndrangheta”. O, forse, “malati di ‘ndrangheta”?

Navi dei veleni: in due note dei servizi il coinvolgimento delle cosche

agosto 14, 2011

da www.strill.it

A partire dal 1992, fino almeno al 2003, ci sarebbe immischiato il gotha della ‘ndrangheta di Reggio Calabria e provincia. Questo, almeno, a detta dei servizi segreti. La Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti continua le proprie indagini sulle cosiddette “navi a perdere” e lo smaltimento di scorie in Calabria. Il Prefetto Giorgio Piccirillo, direttore dell’Aisi (l’Agenzia d’informazione e sicurezza interna), è stato ascoltato poco più di un mese fa, il 12 luglio, dalla Commissione Ecomafie, proprio sul tema del traffico di rifiuti tossici, anche radioattivi, nei territori e nel mare calabresi.

 Prima dell’inizio dell’audizione, è lo stesso presidente Gaetano Pecorella a dare comunicazione di due informative, del 1992 e del 1994, con cui i servizi segreti, avrebbero comunicato al Ros, il Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri, l’interessamento delle cosche nello smaltimento delle scorie: “Devo dire – afferma Pecorella rivolgendosi a Piccirillo – che i documenti che ci ha fatto pervenire sono, a nostro avviso, veramente molto significativi. In particolare, sono arrivati i documenti archiviati con i numeri 488/1 e 488/3, secondo i quali sin dal 1992 il servizio avrebbe acquisito notizie fiduciarie relative all’interesse del clan Mammoliti, in particolare i fratelli Cordì, per lo smaltimento illegale di rifiuti radioattivi, che sarebbero pervenuti sia dal centro sia dal nord Italia, ma anche da fonti straniere”. Ad “autorizzare” lo smaltimento di scorie in Calabria, sarebbero state, dunque, alcune tra le più potenti famiglie della ‘ndrangheta. In particolare, la nota del 3 agosto 1994, così come letta, in parte, da Pecorella, reciterebbe testualmente così: “Informatori del settore non in contatto tra loro – la precisazione è rilevante per la cosiddetta convergenza delle fonti – hanno riferito che Morabito Giuseppe, detto Tiradiritto, previo accordo raggiunto nel corso di una riunione tenutasi recentemente con altri boss mafiosi, avrebbe concesso in cambio di una partita di armi l’autorizzazione a far scaricare nella provincia di Africo un quantitativo di scorie tossiche presumibilmente radioattive”.

Il “permesso” di scaricare in Calabria porcherie d’ogni genere, in cambio di armi. Dalle poche righe, riguardanti anni piuttosto lontani (siamo ai primi anni ’90 dello scorso secolo) emergerebbe, dunque, il coinvolgimento di potenti cosche della ionica, Morabito e Cordì, in particolare. Nomi che vanno ad aggiungersi ai presunti interessamenti del clan Iamonte di Melito Porto Salvo, così come riferito, in passato, da alcuni soggetti ascoltati dagli investigatori, il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, oggi ritenuto per nulla credibile, e Giampiero Sebri, un soggetto che, negli anni ’90, ha gravitato attorno agli ambienti del Partito Socialista. Il dato più inquietante, però, sarebbe quello del coinvolgimento delle cosche di Reggio Calabria, i De Stefano e i Tegano, in particolare, e la prosecuzione degli affondamenti di navi in anni assai più recenti. Dice ancora Pecorella, spulciando le carte sul proprio tavolo: “Ci sono anche altre fonti confidenziali che riguardano le cosche Piromalli, De Stefano e Tegano e, infine, vi è una notizia relativa all’affondamento in mare di rifiuti, documento del 2003”.

Ulteriori elementi, dunque, portano a ritenere certo il paventato (e logico) coinvolgimento delle cosche nello smaltimento illecito di scorie in Calabria. Mare e terra insozzati da rifiuti di ogni genere e provenienza. Nulla, in Calabria, si fa senza il lasciapassare delle ‘ndrine. La relazione dei servizi, girata al Ros, riuscirebbe, però, anche a fare qualche nome: Mammoliti, Morabito, Cordì, Piromalli, De Stefano e Tegano. Famiglie tra le più potenti nel panorama criminale reggino, ma non solo, viste le proiezioni della ‘ndrangheta in altri luoghi d’Italia e del mondo.

Sono, sostanzialmente, queste le informazioni più utili che trapelano dall’audizione del Prefetto Piccirillo, che, per il resto, si limita a negare ogni coinvolgimento da parte dei servizi: “Nulla ha avuto a che fare il SISDE con lo spiaggiamento dalla Jolly Rosso né con le indagini relative all’affondamento di altre navi, quindi ritengo che quello che abbiamo già fornito dal punto di vista documentale sia il contributo più complessivo che oggi l’Agenzia può offrire all’attività della Commissione”. Un modo, nemmeno troppo delicato, di dire “questo è tutto, arrivederci”. Il resto dell’audizione, infatti, è caratterizzato da risposte che non forniscono particolari indicazioni sul caso: nemmeno circa i presunti rapporti del pentito Fonti con i servizi, Piccirillo riesce ad aggiungere qualcosa in più.

La Commissione Ecomafie, però, continua a indagare.

Sì perchè sono tanti i misteri insoluti e, almeno fino al 2003 (anche se è ragionevole pensare ben oltre) le cosche avrebbero continuato a utilizzare la Calabria come merce si scambio: l’affondamento di navi cariche di rifiuti, l’interramento di scorie nel sottosuolo, in cambio di denaro o di altri “beni” come le armi. Sul tema delle “navi a perdere” e dello smaltimento di rifiuti, anche radioattivi, nemmeno un mese prima dell’audizione di Piccirillo, il 21 giugno, la Commissione aveva ascoltato anche il Generale Adriano Santini, direttore dell’Aise (l’Agenzia d’informazioni e sicurezza esterna). La sua audizione, però, è stata immediatamente segretata.

Inchiesta ”Meta”: i pentiti dipingono un quadro inquietante di Reggio Calabria

marzo 27, 2011

da www.strill.it

Fiumi. Di parole, di inchiostro, di storie. I verbali dei collaboratori di giustizia, depositati nell’ambito dell’inchiesta “Meta” dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo, che ha notificato l’avviso di conclusione indagini per una quarantina di persone, gettano un fascio di luce sulle dinamiche criminali di Reggio Calabria. L’inchiesta “Meta” portò, nel giugno 2010, all’arresto, operato dal Ros dei Carabinieri, di decine di persone, accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso: nel focus degli investigatori, in particolare, le tre cosche più potenti della città. De Stefano-Tegano-Condello, un tempo contrapposte, adesso unite in una pax che opprime la città, dal punto di vista economico e sociale.

E’, in particolare, il collaboratore di giustizia Roberto Moio, nipote del mammasantissima Giovanni Tegano, a delineare le gerarchie in città. In un ideale podio, Moio mette al primo posto la cosca De Stefano: “I De Stefano hanno sempre comandato a Reggio Calabria” dice il collaboratore di giustizia. Un prestigio che nasce diversi anni fa, allorquando i tre fratelli terribili, Giovanni, Giorgio e Paolo decidono di fare la guerra al gotha della ‘ndrangheta, eliminando, nel giro di pochi anni, prima don ‘Ntoni Macrì e poi don Mico Tripodo.

Da quel momento saranno loro il gotha della ‘ndrangheta.

Roberto Moio, dunque, nel verbale del 19 ottobre 2010, una ventina di giorni dopo il suo arresto, avvenuto per opera della Squadra Mobile nell’ambito dell’inchiesta “Agathos”, spiega al pm Lombardo le dinamiche operanti in città:

PM:- Tutte le famiglie a Reggio, le famiglie di mafia, no? Sono sullo stesso livello?

MR:- No.

PM:- No. Quindi ci sono famiglie che hanno un prestigio.

MR:- Si.

PM:- Quali sono queste famiglie di primissima fascia?

MR:- A Reggio Calabria?

PM:- Si.

MR:- I Tegano, i De Stefano … prima i De Stefano, poi i Tegano.

PM:- Cerchiamo di metterli in ordine per quella che è la sua scala.

MR:- Allora, i De Stefano, storici, no?

PM:- Aspetti. Questo … stiamo parlando di Reggio città, no?

MR:- Si. Reggio città.

PM:- I De Stefano lei dice. Perché? Non si stupisca voglio dire della domanda, ci sarà un motivo?

MR:- Si. I De Stefano hanno sempre comandato a Reggio Calabria.

Ed è proprio quella parola, “sempre”, a fotografare la potenza della cosca:

PM:- Per il prestigio che aveva Paolo, per le azioni criminali, per la ricchezza …? Per i contatto con certi ambienti? Non lo so, un motivo ci sarà?

MR:- No. Le azioni criminali, so io … all’epoca, dei vecchi, parliamo di Giovanni, di Giorgio, và … Montalto, si parla di Montalto qui insomma … delle vecchie ‘ndrine, no?

PM:- Vabbè, Montalto … c’era pure Giovanni Tegano …

MR:- Si, c’era pure Giovanni, mio zio, no?

PM:- Quindi per le azioni criminali, principalmente?

MR:- Si. Principalmente … si, per questo. Per le conoscenze pure.

PM:- Che conoscenze hanno?

MR:- Mah … in tutti … i tutti i posti in Italia, Paolo De Stefano conosceva …

PM:- Si, ma conoscenze mafiose? All’interno …

MR:- Sempre così, si.

PM:- Sempre mafiose?

MR:- Si. Mafiose, si. Anche altre che io non so …

Una cosca capace di intrecciare rapporti con il mondo delle istituzioni e dell’imprenditoria, ma, comunque, dilaniata in una lotta interna tra Peppe De Stefano, figlio di don Paolino, e lo zio Orazio, fratello del padre, come spiega, facendo eco alle dichiarazioni, di qualche mese fa, di un altro pentito, Nino Fiume, Roberto Moio: “I rapporti tra Orazio De Stefano ed il nipote Giuseppe non sono tra i migliori” dice il collaboratore di giustizia. Peppe De Stefano in ascesa e non può permettersi un appiattimento sulla cosca Tegano, come invece vorrebbe lo zio Orazio: “Inizia l’ascesa di Giuseppe De Stefano che lo porterà al vertice della cosca, allontanandosi dallo zio Orazio, che è vicino più ai Tegano”. Ma Peppe De Stefano va avanti per la sua strada, scegliendo altri scudieri per i propri affari: “Quando Giuseppe De Stefano viene scarcerato inizia a legarsi a Mario Audino. Al momento del suo arresto Giuseppe De Stefano aveva un grado di ‘ndrangheta molto alto, slegato dallo zio Orazio” racconta ancora Moio.

E, comunque, tutte le altre famiglie sarebbero di “seconda fascia”, un gradino sotto i Tegano e i Condello, ma inferiori, soprattutto, ai De Stefano. Ancora dall’interrogatorio di Moio, condotto dal pm Lombardo:

PM:- Dopo di loro chi c’è?

MR:- Parliamo dello stesso piano? Oppure …

PM:- Ma certo. La prima fascia, diciamo.

MR:- Libri, Serraino, Tegano, và … Condello.

PM:- Questi sono?

MR:- Si, questi … ‘sti fasci, tutti … la seconda fascia …

PM:- Quindi allo stesso livello ci sono i Libri, i Serraino, i Tegano ed i Condello. Ora, queste famiglie, no? Tra di loro, nel 2010, che rapporti hanno? Si parlano, si confrontano?

MR:- Si. Certo, si, si, si.

Un altro collaboratore di giustizia, Nino Lo Giudice, arrestato nell’ottobre 2010 e subito passato dalla parte della giustizia, fotografa, invece, le dinamiche, assai più tranquille a dire il vero, della cosca Condello, facente capo a Pasquale Condello, “il supremo”, arrestato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2008. Il motivo per il quale viene chiamato “il supremo” lo spiega il pentito Consolato Villani: “Per il grado … a parte del grado. Per l’importanza … perché … diciamo il prestigio criminale … diciamo che se continuava la guerra aveva vinto la guerra lui solo”. Nino Lo Giudice, invece, per anni ne avrebbe coperto la latitanza, venendo a conoscenza delle gerarchie della famiglia: a detta di Lo Giudice, il ruolo operativo nella cosca Condello sarebbe da attribuire a Domenico, detto “Micu u pacciu”, attualmente latitante: “Pasquale Condello mi diceva che tutti i soldi che entravano dalle estorsioni degli appalti di tutto andavano a lui […] in quanto Pasquale Condello diceva che lui soldi non ne tocca”. E i soldi, poi, venivano distribuiti:

Dr. Lombardo: sì, e poi che faceva di questi introiti a sua volta li distribuiva che fine facevano.

Lo Giudice Antonino: come diceva Pasquale Condello li distribuiva alle varie diciamo persone che dovevano prendere soldi.

“Micu u pacciu”, mano operativa della cosca, diventerebbe il capo dopo la cattura del “supremo”, che avrebbe salvaguardato, per quasi vent’anni, la propria libertà, attraverso una fitta corrispondenza di “pizzini”, cui nemmeno Lo Giudice, investito del grado di “padrino” avrebbe avuto accesso:

Dr. Lombardo: con la cattura di Pasquale Condello a febbraio 2008, Domenico Condello che cosa diventa?

Lo Giudice Antonino: diventa il capo della sua famiglia, che dirige tutto, che parte tutto da lui.

Dalle dichiarazioni dei pentiti, in particolare da quelle di Roberto Moio, emerge, comunque, una città comandata e divisa dalle tre cosche più potenti. Una città oppressa nella propria libertà, economica e sociale. Sebbene si spari molto meno rispetto agli anni ’90, Reggio Calabria rimane, comunque, soggiogata allo strapotere mafioso:

P.M.:   Senta io non ho capito, tornando un minuto indietro, questa storia delle zone, cioè i Tegano in tutta Reggio Calabria, dov’è la loro zona, quindi dove pigliano i soldi in pratica no…

MOIO:            Sì.

P.M.:   …della città, quale parte è?

MOIO:            Tutta, tutta la città dottore.

P.M.:   Eh, e le altre famiglie, i De Stefano…

MOIO:            Allora praticamente, se io mi vado a prendere… praticamente un lavoro grosso, cioè per dire un lavoro di 100.000 Euro, giusto, un lavoro di 100.000 Euro…

P.M.:   E’ un lavoro enorme.

MOIO:            …cioè ad Archi chi ci sono, i Condello, i De Stefano…

P.M.:   E i Tegano…

MOIO:            …i Tegano, giusto, se li dividono loro; se sono lavori di 5.000-10.000 Euro ci sono andato io per primo e capace che il prossimo va lui e io non ti dico niente, te lo fai tu e basta., poi ci… così funziona no.

P.M.:   Eh quindi ma questo qua da Archi…

MOIO:            Di come, di come seppi io… no, no, da Archi fino a Ponte di San Pietro, poi i De Stefano…

P.M.:   Quindi praticamente tutta la città.

MOIO:            …tutta la città, va’…

P.M.:   …chiunque va là a riscuotere poi si divide in tre, il senso questo è?

MOIO:            Quando supera una cifra però dottore.

P.M.:   Certo…

P.M.:   Le cose serie.

P.M.:   …sugli spiccioli no.

MOIO:            30.000 Euro: 10, 10 e 10, va’. Poi ci sono posti che De Stefano è una vita che ce l’hanno…

Le cosche fanno la pace, mentre la cittadinanza soffre la povertà, mentre i commercianti restano soffocati dalle richieste estorsive, avanzate con metodicità e prepotenza dalle cosche:

PM:- Decidono insieme determinate … vanno d’accordo?

MR:-Si, si, si. Ormai è tutta pace. Se io praticamente devo uccidere una persona, non lo so , a … a Spirito Santo, la zona dei Serraino, chiedo un favore e allora … se la vedono loro.

PM:- Quindi si parlano.

MR:- Si parla, si, si, si.

PM:- Concludono affari insieme? Amministrano insieme gli affari più importanti?

MR:- No, questo non lo so, veramente.

PM:- Comunque c’è uno stato di pace, abbastanza stabile?

MR:- Si, si. Di pace, di pace … si, si.

Più che un’indagine, un manuale per la conoscenza di Reggio Calabria. L’inchiesta “Meta” è servita.

Le manovre della famiglia Zappalà

marzo 19, 2011

da www.strill.it

“Abbiamo scalato la montagna fratello, lo sai dove siamo? Nella discesa”. Il 21 gennaio 2011, Antonino Zappalà, fratello di Santi Zappalà, l’ex consigliere regionale del Pdl, tratto in arresto nell’ambito dell’operazione “Reale 3”, è fiducioso. E’ andato a trovare il fratello, a quel tempo detenuto presso il carcere di Nuoro. Una settimana prima il Tribunale della Libertà di Reggio Calabria ha annullato l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la cosca Pelle di Bovalino: Zappalà, nella campagna elettorale per le regionali del marzo 2010, sarebbe andato a trovare il boss Giuseppe Pelle, per parlare delle elezioni e di voti: “Ti dò una scadenza massima, che San Valentino vai e te lo passi con tua moglie. Buone, buone possibilità, stiamo lavorando, non pensare, stiamo facendo un lavoro grossissimo. Guardami negli occhi e non ti preoccupare” dice ancora Antonino Zappalà.

Tanti i tentativi messi in atto dalla famiglia Zappalà, nel tentativo di far uscire dal carcere il congiunto. Tutti raccolti nell’informativa del Ros di Reggio Calabria che è stata depositata dal pubblico ministero Giovanni Musarò, nell’ambito dell’udienza preliminare “Reale 3”, che si celebra al cospetto del Gup di Reggio Calabria Roberto Carrelli Palombi, in cui tutti gli imputati (Liliana Aiello, Filippo Iaria, Francesco Iaria, Giuseppe Mesiani Mazzacuva, Pietro Antonio Nucera, Giuseppe Pelle, Mario Versaci e Santi Zappalà) hanno chiesto di essere giudicati con la formula del rito abbreviato.

Tutta l’attività difensiva di Zappalà è stata incentrata in questi due mesi (viene arrestato, infatti, a ridosso del Natale) a uscire dal carcere dove è detenuto a causa dell’ordinanza di custodia cautelare spiccata nei suoi confronti. E così Zappalà si dimette da consigliere regionale e, con una lettera formale ai giudici, si impegna a non fare più politica.

Nei colloqui in carcere è anche la moglie Francesca Parisi a rassicurare il marito, Santi Zappalà. Oltre ai due legali, Francesco Albanese e Antonino Curatola, ci sarebbe un altro soggetto pronto a interessarsi della vicenda del politico. Un certo “Antonello”:

“PARISI Francesca:              Vedi che mi ha detto tuo cugino Antonello di dirti …omissis… che non c’è solo Francesco Albanese e Tonino Curatola … c’è tuo cugino Antonello con loro.

ZAPPALA’ Antonino:          Ohh…Santo, vedi che tutto Antonello, tutto Antonello!

(ZAPPALA’ Antonino nel contempo gesticolava con le mani facendo intendere che il soggetto in questione si stava interessando costantemente alla sua problematica giudiziaria. Zappalà Carmela immediatamente  scostava, in modo discreto, il braccio dello zio seduto al suo fianco per invitarlo a cambiare discorso. Zappalà Antonino, infatti, comprendendo il senso del gesto della nipote Carmela, proseguiva la conversazione incentrandola su altri argomenti).

Allora fammi ridere, vai…”

Un uomo che gli uomini del Tenente Colonnello Stefano Russo identificano in Agatino Antonio Guglielmo, funzionario del Ministero della Giustizia, presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria. I parenti di Zappalà tengono molto a rassicurare il congiunto in carcere circa l’impegno profuso per tirarlo fuori di galera:

“ZAPPALA’ Antonino:        Tu Santi non ti potrai mai immaginare …

ZAPPALA’ Carmela:            Quale cosa?

ZAPPALA’ Antonino:          … essendo qua, il lavoro che è stato fatto fuori.

ZAPPALA’ Santi:     …incompr…

ZAPPALA’ Antonino:          Quanto abbiamo lavorato”.

I familiari di Zappalà sono sicuri che Zappalà uscirà prima della scadenza dei termini di custodia cautelare, fissati per il prossimo 21 marzo e farebbero poi riferimento a una persona robusta, che avrebbe un ruolo fondamentale nelle sorti dell’ex consigliere regionale. Ancora dall’informativa che il Ros di Reggio Calabria ha spedito al Procuratore Giuseppe Pignato, adesso agli atti del processo “Reale 3”:

“ZAPPALA’ Santi:    … (dal servizio di videoripresa si nota Santi Zappalà che,  rivolgendosi al fratello Antonino, allargava le braccia e stringeva i pugni come a mimare una persona robusta e/o importante)…

PARISI Francesca:    Santo…

ZAPPALA’ Santi:     … (dal servizio di videoripresa si nota Santi Zappalà che,  rivolgendosi al fratello Antonino, allargava le braccia e stringeva i pugni come a mimare una persona robusta e/o importante)…

ZAPPALA’ Antonino:                      Chi?

ZAPPALA’ Santi:     Antonello…

ZAPPALA’ Antonino:          …incompr… (tono di voce molto basso e i due fratelli dialogano a distanza ravvicinata) …

ZAPPALA’ Santi:     … Gianfranco.

ZAPPALA’ Antonino:          Avvicinati … avvicinati …(dalle videoriprese si nota Antonino Zappalà che si alza dalla sedia e si avvicina a Santi ZAPPALA’. I due interlocutori iniziano a parlare a distanza molto ravvicinata e con un tono di voce molto basso) … lo saprà stasera … incompr …

PARISI Francesca:    Santo … (parla con tono di voce bassissimo guardando negli occhi Santi ZAPPALA’) … incompr …

ZAPPALA’ Santi:     …incompr…”

Nel corso del colloquio del 21 gennaio, nel carcere di Nuoro, Antonino Zappalà, sempre in merito alla problematica della scarcerazione del fratello Santi, dopo aver riportato al fratello quanto riferitogli dall’avvocato Albanese e cioè che il Tribunale della Libertà aveva creato un precedente  rigettando l’istanza di scarcerazione della coimputata Liliana Aiello, la cui udienza era stata tenuta prima di quella di Santi Zappalà, e che se la sua udienza fosse stata la prima sarebbero stati scarcerati anche gli altri indagati), riferisce al fratello di avere interessato alcune persone per la risoluzione della problematica giudiziaria, specificando che era in attesa di una telefonata e che a breve gli avrebbe comunicato qualcosa. Figura centrale, secondo i Carabinieri del Ros, sarebbe dunque Antonino Guglielmo che “grazie alla sua posizione lavorativa e alle connesse conoscenze all’interno dell’apparato giudiziario, avrebbe potuto acquisire e/o ricevere, con anticipo rispetto alla normale procedura, informazioni sulla vicenda giudiziaria riguardante il cugino Santi Zappalà”.

Secondo i Carabinieri del Ros di Reggio Calabria, Guglielmo sarebbe un vero e proprio factotum della famiglia Zappalà, capace di dettare le strategie difensive, entrando in contrasto con uno dei legali di Zappalà, l’avvocato Antonino Curatola:

ZAPPALA’ Antonino:          Noi abbiamo avuto una discussione con Tonino CURATOLA, ha detto…

ZAPPALÀ S.:            No, io gli … incompr … mi salgono i cazzi! Proprio così!

PARISI Francesca     Bravo!

ZAPPALA’ Antonino:          E hai fatto bene, perché lui è venuto qua determinato, perché Tonino lo sai che cosa ha messo? Ha messo in dubbio anche la mia parola, gli ho detto: “ci sono io qua e rappresento mio fratello, c’è la moglie? E si deve fare così!”… “Mah!” Allora ALBANESE dice: “vediamo cosa” … “avvocato…” gli ho detto: “…avvocato CURATOLA, basta, si deve fare così!”

PARISI Francesca:    Antonello si è infuriato, perché poi gli ha detto a Francesco: “se continua così faccio nominare un altro.”

ZAPPALA’ Santi:     Poi io ho capito un’altra cosa, che Francesco è un’altra cosa .

ZAPPALA’ Antonino:                      Ma Antonello …

ZAPPALA’ Santi:     Mentre Tonino ho capito che … incompr …

ZAPPALA’ Antonino:                      Non hai capito! Noi gli dobbiamo dare conto solo a Francesco, solo!

PARISI Francesca:    Si, si basta!

ZAPPALA’ Santi:     Ah?

ZAPPALA’ Antonino:          Se gli dobbiamo dare conto … solo a Francesco!

ZAPPALA’ Santi:     Si ho capito, quello l’ho capito! L’ho capito, l’ho capito in una parola perché Francesco è vicino … incompr … hai capito?

Ed è grande la considerazione e l’affidamento che si fa su “Antonello”, colui il quale si informa anche presso l’ufficio Gip/Gup dell’iter giudiziario del caso Zappalà. Ancora dai colloqui in carcere:

 ZAPPALA’ Santi:     Antonello chissà cosa fà?…

ZAPPALA’ Antonino:                      Tutto, abbiamo lavorato, abbiamo…

ZAPPALA’ Santi:     Senti …

(…attimo di pausa… dal servizio di video osservazione interno, si notava che lo stesso Santi ZAPPALÀ che allargava le braccia e stringeva i pugni come ad indicare una persona robusta e/o importante).

ZAPPALA’ Antonino:          Abbiamo fatto il massimo!

La figura dell’uomo corpulento, peraltro, è assai ricorrente nei discorsi della famiglia Zappalà:

“ZAPPALA’ Santi:    Ah … ti voglio dire … (dal servizio di video osservazione interno, si notava che lo stesso Santi ZAPPALÀ che allargava le braccia e stringeva i pugni come ad indicare una persona robusta e/o importante) … la dà per sicura al cento per cento (100 %)?

ZAPPALA’ Antonino:                      Ha parlato! (dal servizio di video osservazione interno, si notava Antonio ZAPPALÀ fare cenno di  “si” con il capo).

ZAPPALA’ Santi:     Personalmente lui?

ZAPPALA’ Antonino:                      Si!

ZAPPALA’ Santi:     Ah?

ZAPPALA’ Antonino:                      Si, Santo si!”

Tra il nove e il dieci febbraio, peraltro, i familiari di Zappalà si sarebbero recati a Nuoro, dove il congiunto era detenuto, convinti della sua scarcerazione. A tal proposito, in alcune intercettazioni concorderebbero sul fatto di dichiarare che erano preoccupati per le condizioni fisiche del parente detenuto e che, quindi, avevano deciso di andare a trovarlo: “I familiari del Santi Zappalà – scrivono i militari del Ros – si stavano precostituendo una giustificazione plausibile alla loro presenza in Nuoro, proprio il giorno della scarcerazione – non avvenuta – del congiunto”.

Da ultima, la delusione per la mancata scarcerazione porta i soggetti coinvolti nelle intercettazioni a parlare delle dinamiche che avrebbero portato alla decisione. Santi Zappalà attraverso la mimica (allargava le braccia e  stringeva i pugni come a mimare una persona robusta e/o importante) più volte utilizzata per indicare una terza persona, evidentemente interessata a seguire la propria situazione giudiziaria, si rivolgeva al fratello Antonino e gli chiedeva, riferendosi a Guglielmo “… incompr. … l’ha preso in giro?”. Dalle telecamere, quindi, si vede Antonino Zappalà avvicinarsi al fratello Santi e parlargli all’orecchio: “Praticamente quello della Cancelleria gli ha detto: “vedi di non nominare quello che … che non si è saputa la cosa che il Presidente gli aveva detto: “chi l’aviva a cacciare” … qua perchè abbiamo parlato noi   (Antonino Zappalà muove il dito intorno l’orecchio mimando il gesto di essere ascoltato),   per questo si è venuto a sapere qualcosa … Per questo ti dico va bene, stai più tranquillo … Santo   (nuovamente Antonino Zappalà si avvicinava all’orecchio del fratello)   … incompr … per non passare guai sopra a guai, noi ci dobbiamo … lo sai che significa “… non m’ ndii taccunu a tutti … (ndr: che non ci arrestano a tutti!!)”  a mia ed Antonello …  mettitelo in testa che siamo vicini”.

Un’ultima conversazione che, secondo il Ros, implicherebbe la figura di almeno quattro uomini, disposti, evidentemente, ad agevolare la scarcerazione di Zappalà. Adesso resta solo da vedere di chi si tratti.

Dal 24 luglio ”S” sbarca in Calabria

luglio 23, 2010

I pizzini, i verbali, gli affari e le intercettazioni sulla “Cupola calabrese” colpita al cuore dalle maxiretate di luglio che hanno portato in cella 350 affiliati alla ‘ndrangheta

che avevano fatto di Milano il quartier generale da cui gestire gli affari dei boss. Questi i contenuti con cui il news-magazine S, del gruppo Novantacento, di Palermo, sbarca nelle edicole oltre lo Stretto con un’edizione calabrese interamente dedicata all’organizzazione criminale che si è dotata di una gerarchia simile a Cosa Nostra.

«In 116 pagine full-color – riporta un comunicato – il mensile diretto da Francesco Foresta, ricostruisce punto per punto le fasi delle indagini e i capi di imputazione che coinvolgono l’esercito di 350 uomini agli ordini del super-boss Condello: dagli appalti in Calabria e Lombardia alle relazioni con uomini delle istituzioni, passando per le lettere del boss ai familiari, i retroscena del delitto dell’assicuratore Filianoti e i rapporti tra colletti bianchi e le ‘ndrine.

E poi le estorsioni imposte a tutta Reggio Calabria, il nuovo organigramma delle ‘ndrine, le lupare bianche e gli occhi dell’organizzazione criminale calabrese sull’affare del decennio, l’Expo che si terrà a Milano nel 2015». «È un numero speciale – prosegue la nota – che passa ai raggi X gli affari della ‘ndrangheta a livello nazionale, che raccoglie in un unico volume le fasi delle inchieste ‘Metà e ‘Criminè e che spiega gli equilibri di potere a Reggio Calabria e i collegamenti tra le cosche e gli ambienti politici calabresi».

A firmare gli articoli, oltre a Davide Milosa, Andrea Cottone e Claudio Reale, due cronisti cresciuti alla scuola di strill.it: Claudio Cordova e Antonino Monteleone.

S – Calabria sarà in tutte le edicole calabresi, e nelle principali rivendite di milano a partire da sabato 24 luglio a 3 euro.

Il mio libro-inchiesta: ”Terra venduta”

giugno 4, 2010

Tempo fa, molto tempo fa, mi ero giustificato, per la scarsa frequenza con cui procedevo all’aggiornamento di questo blog, spiegando di avere qualcosa in ballo, qualcosa che stava occupando il mio tempo in maniera totale.

Ebbene, adesso posso finalmente svelare il mistero. Ho scritto un libro-inchiesta sul traffico di rifiuti tossici e radioattivi in Calabria e, ancora, sulle incidenze patologiche che la presenza di queste scorie avrebbe sulla popolazione.

Il libro si intitola “Terra Venduta”, verrà presentato domani 5 giugno presso il salone del Palazzo della Provincia, alle 17. Molti organi di informazione hanno ripreso la notizia e di questo sono grato. Vi segnalo l’articolo apparso sul strill.it, il giornale on line per il quale lavoro.

Dal torrente Oliva di Cosenza alla Pertusola di Crotone, da Cosoleto, nella Piana, a Melito di Porto Salvo, nella ionica, e, ancora, i segreti affondati nel mare, gli atti giudiziari, le dichiarazioni

 dei pentiti, i dati ufficiali dei dipartimenti sanitari, le cifre di denaro attorno ai traffici illeciti di rifiuti e quelle delle morti per malattia sul territorio.

“Terra venduta – Così uccidono la Calabria – Viaggio di un giovane reporter sui luoghi dei veleni”, del giornalista Claudio Cordova per Laruffa Editore, è un’inchiesta diretta e coraggiosa che analizza i fatti e li intreccia a numeri spaventosi che descrivono una regione alla mercé della ’ndrangheta e attanagliata dalle malattie.

Le cosche, con alleanze impensabili e connivenze occulte, muovono un malaffare da milioni di euro. E uccidono il territorio sul piano dello sviluppo e, fatto ancora più grave, sotto il profilo della salute pubblica.     

Cordova ripercorre, con razionalità rigorosa e stile avvincente, i misteri insoluti delle navi avvelenate, della Pertusola, dei traffici d’armi, su rotte internazionali che, inevitabilmente e misteriosamente, finiscono per ritornare in Calabria. Soprattutto dà voce alla gente, ai comitati costituiti per chiedere la verità, alle storie individuali.

Informazioni e notizie puntuali, suffragate da riscontri documentali, dagli atti della Commissione parlamentare sui rifiuti, della DIA, di Legambiente e della magistratura, con una spietata e coraggiosa denunzia di omertà, omissioni, inerzie, negligenze dovute a pressioni di poteri occulti e a interessi enormi decisi a difendere i proventi illeciti con ogni mezzo, nessuno escluso (F. Imposimato).

Il libro, che gode del Patrocinio morale del Forum Nazionale dei Giovani e si avvale della prestigiosa prefazione del magistrato Ferdinando Imposimato, sarà presentato sabato prossimo, 5 giugno, alle ore 17, presso la sala del Palazzo della Provincia, a Reggio Calabria.

Oltre all’autore, interverranno: Omar Minniti, consigliere provinciale – Luigi De Sena, vicepresidente Commissione Parlamentare Antimafia – Angela Napoli, componente Commissione Parlamentare Antimafia – Giusva Branca, direttore responsabile Strill.it – Andrea Iurato, delegato Forum Nazionale dei Giovani – Nuccio Barillà, dirigente nazionale Legambiente – Roberto Laruffa, editore. Coordina Maria Teresa D’Agostino (Ufficio Stampa Laruffa).

Per le associazioni, i comitati, i semplici cittadini, insomma, per chiunque fosse interessato a organizzare una presentazione nella propria città, nel proprio paese, può contattare l’ufficio stampa della casa editrice Laruffa (ufficiostampa@laruffaeditore.it) oppure direttamente me (claudiocordova10@hotmail.com).

Se la ‘ndrangheta si ”sicilianizza”

Maggio 19, 2010

da www.strill.it

Reggio Calabria è una città soffocata dalla ‘ndrangheta, una città che, tra anni ’80 e ’90, ha contato sull’asfalto centinaia di morti nella seconda guerra di mafia. Ma sei mesi così, fatti di “avvertimenti”, incessanti, allo Stato, Reggio Calabria non li aveva mai avuti. La lettera di minacce recapitata al sostituto procuratore della Dda, Giuseppe Lombardo è solo l’ultimo “messaggio” che le cosche potrebbero aver inviato agli inquirenti.

E, ancora una volta, nel mirino c’è il sostituto procuratore Lombardo, impegnato in inchieste delicatissime, come quella “Bellu lavuru”, contro le cosche di Africo, come quella “Testamento”, che vede alla sbarra il clan Libri, come le indagini sui grandi boss, Pasquale Condello e Giovanni Tegano.

“Sei un uomo morto. Un cadavere ambulante”. Sarebbe questo il contenuto della lettera recapitata al pm. Già nel gennaio scorso Lombardo aveva ricevuto una busta con all’interno una cartuccia caricata a pallettoni. Ma la lettera, recante un timbro del centro di smistamento di Lamezia Terme, indirizzata a Lombardo è, come detto, l’ennesimo segnale che le ‘ndrine potrebbero aver voluto inviare agli inquirenti.

Nel marzo scorso, un’altra busta, con proiettili, indirizzata a un altro giovane sostituto: Antonio De Bernardo. E ancor prima, ovviamente, la bomba alla Procura Generale di inizio anno. Senza dimenticare un altro inquietante segnale: il ritrovamento di un’auto-arsenale nella zona dell’aeroporto di Reggio Calabria, nel giorno della visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

La ‘ndrangheta ha ucciso, tanto, negli anni, ma mai, per strategia, quasi per DNA, aveva messo nel proprio mirino le Istituzioni, se si pensa che, a esclusione del giudice Antonino Scopelliti (che, però, sarebbe stato ucciso per volere di Cosa Nostra), la più alta carica uccisa in Calabria è il vicepresidente del Consiglio Regionale, Franco Fortugno, assassinato nel 2005 a Locri.

Ora, però, le cosche, sembrano aver cambiato strategia.

La Procura della Repubblica di Reggio Calabria, retta da Giuseppe Pignatone, ha colpito, negli ultimi mesi, le ‘ndrine di tutta la provincia: Pelle, Morabito, De Stefano, Bellocco, Pesce, Tegano, non c’è praticamente cosca che non sia stata indebolita da arresti e sequestri di beni. E allora la ‘ndrangheta, quasi adeguandosi al nuovo corso palermitano, sembra aver intrapreso una strada più “siciliana”, uscendo, per la prima volta dopo anni, dall’ombra, per individuare dei bersagli ben precisi. Al momento in maniera non cruenta.

Proprio una delle ultime inchieste del Ros dei Carabinieri, denominata “Reale”, potrebbe aver svelato l’organizzazione delle ‘ndrine in una “Provincia”, che, a grandi linee, potrebbe ricalcare le orme della celebre “Cupola” di Cosa Nostra.

E se la ‘ndrangheta si “sicilianizza”, questo non può che rappresentare una grossa novità rispetto alle conoscenze che tutti avevano della criminalità organizzata calabrese. Sarebbe un cambio di strategia che, se confermato, dovrebbe preoccupare ancor più delle gravissime minacce subite fino a oggi da alcuni magistrati.

“Non si comprende cosa sperano di ottenere” dice un magistrato.

Toccherà alla Procura della Repubblica di Catanzaro tentare di far luce anche su quest’ultima vicenda: è proprio nel capoluogo di regione che risiede la competenza per i fatti che riguardano i magistrati reggini.

Ma, dietro le minacce ai magistrati degli ultimi mesi, ci sono ancora i boss di sempre, gli uomini storici della ‘ndrangheta locale, oppure nuove leve si affacciano sul panorama criminale, tentando di colmare un vuoto che i numerosi arresti avrebbero creato?

Sulla Calabria pregiudizi o ”post-giudizi”?

Maggio 1, 2010

da www.strill.it

Partiamo dal titolo di un bell’articolo di Mimmo Gangemi apparso ieri su “La Stampa” e partiamo dal titolo di una bella canzone di Bruce Springsteen.

“E’ stato un calabrese a trafiggere Gesù”. E’ il titolo dell’approfondimento (pagg. 42-43) con cui lo scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte, tramite un’accurata e precisa ricostruzione storica, arriva a individuare in un soldato della Decima Legione Fretensis, di base sulla sponda reggina dello Stretto di Messina, l’uomo che trafisse con una lancia Gesù Cristo agonizzante sulla croce.

Mimmo Gangemi sa come studiare i documenti e sa come mettere nero su bianco, con grande maestria, i propri studi. Chapeau.

Ma blocchiamoci un attimo e andiamo alla canzone di Bruce Springsteen. Mi capita spesso di pensare a questa canzone quando devo tentare di fornire un’analisi, più ampia possibile, del territorio calabrese e reggino. La canzone si intitola Badlands, un termine che può essere tradotto come “bassifondi” o, più semplicemente, “postacci”. E per avere solo una minima speranza di capirli, i “bassifondi”, i “postacci”, vanno vissuti ogni giorno.

Ora, nessuno potrà negare che, per molti versi, Reggio Calabria, la Calabria intera, rappresentino i bassifondi d’Italia. E nessuno potrà obiettare se, per diversi motivi, questi territori vengano visti come dei “postacci”.

Ritorniamo all’articolo di Mimmo Gangemi.

Di norma, soprattutto nei grandi giornali, non sono gli autori a stabilire i titoli dei propri articoli. Quello è un compito a parte, affidato ad altre persone. “E’ stato un calabrese a trafiggere Gesù”. Perché non “è stato un italiano a trafiggere Gesù”? Secondo le Scritture, Cristo fu crocifisso a Gerusalemme, quindi, teoricamente, i suoi aguzzini potrebbero essere stati anche personaggi di altra etnia rispetto a quella italiana. E, ancora, se a trafiggere Gesù fosse stato un soldato originario di Pescara, il quotidiano avrebbe ugualmente titolato “E’ stato un abruzzese a trafiggere Gesù”? Avrebbe rimarcato, così precisamente, l’appartenenza regionale?

Forse sì, forse no.

Ora, è innegabile che, fuori dalla Calabria, il calabrese sia visto come un criminale, un reietto, uno che, per tornare a Bruce Springsteen, proviene dai “bassifondi”. Anzi no. Dai “postacci”.

Resta da capire se la cattiva fama sia meritata o meno. Resta da capire se la Calabria sia davvero al centro di un complotto mediatico, come ha piagnucolato per cinque anni l’ex Governatore Agazio Loiero. Se di questa terra siano di dominio pubblico le tante, tantissime, emergenze, e vengano colpevolmente tralasciate, invece, le poche, pochissime, note liete, o se, di converso, la cattiva nomea della regione non sia un pregiudizio gratuito e offensivo, ma un “post-giudizio”, dettato dalle azioni e dai comportamenti degli ultimi trent’anni.

Una volta in un film credo di aver sentito una battuta di questo genere: “Non è tanto quello che sei, ma ciò che fai che ti qualifica”.

Brevissima analisi. La Calabria, da decenni è vessata da cattivi governanti, da una corruzione degna di un paese del Sudamerica, dal malaffare. In provincia di Cosenza sembra che sotto il terreno vi siano scorie radioattive, a Crotone, invece, sulle scorie costruivano le scuole e, ancora a Crotone, i bambini vengono uccisi mentre giocano a calcetto. Senza contare lo strapotere della ‘ndrangheta che soffoca tutto il territorio.

Ecco, cosa ha fatto il calabrese, in tutti questi anni, per “smacchiarsi” la reputazione? Una cattiva reputazione che, di certo, non è dovuta alle persone laboriose che, ogni giorno, conducono la propria vita con onestà e dignità. La cattiva fama della Calabria è dovuta a una minoranza dedita al malaffare, alle ruberie e agli omicidi. Una minoranza cui, però, la maggioranza onesta sembra avere, per troppo tempo, concesso un ingiustificato consenso.

Anche le ultime consultazioni elettorali, stando a ciò che trapela dalle indagini della Commissione Parlamentare Antimafia, sembra che siano state pesantemente condizionate dal voto della ‘ndrangheta. Nel mirino sarebbero finiti oltre quindici candidati. E le libere votazioni dovrebbero essere la massima espressione di una democrazia.

A Reggio Calabria, tanto per arrivare all’attualità, la cittadinanza ha reagito agli applausi a Tegano, con alcune bellissime manifestazioni che, purtroppo, non hanno avuto sugli organi nazionali, uno spazio adeguato. Mimmo Gangemi ha scritto su “La Stampa” che si è trattata di una reazione tardiva. E io sono d’accordo. Viviamo in una terra che sembra capace di reagire solo se dileggiata a livello nazionale e internazionale. Ma quello non è coraggio, quella è una reazione istintiva di chi viene attaccato. E’ istinto di sopravvivenza.

Molti si sono affrettati a dire: “Non colpevolizziamo la città, gli applausi a Tegano arrivavano solo da parenti e amici”.

Assecondiamo il ragionamento. Passi per i parenti che, purtroppo, sono quelli e restano tali. Ma, possibile che, da parte di una bella fetta dell’opinione pubblica (influenzata da una pessima informazione) non venga visto come un disvalore essere “amici” (ed erano tanti, credetemi) di un boss latitante dal 1993, condannato con sentenza definitiva per omicidio e associazione mafiosa?

Forse sta qui l’essenza di tutta la situazione.

Conoscendo Mimmo Gangemi, sicuramente il titolo affibbiato al suo articolo non gli sarà piaciuto nemmeno un po’. E allora, per chiudere il cerchio, il titolo de “La Stampa”, sicuramente tendenzioso, forse è dettato anche da un comportamento, troppo accondiscendente (nel migliore dei casi) del popolo calabrese nei confronti dei virus che lo ammorbano. Per carità, un comportamento che in Calabria trova il proprio picco ma che, sicuramente, è presente in altre zone, soprattutto del Meridione. Penso alla Campania, mentre in Sicilia, dopo anni di stragi, sembra essersi sviluppato uno spirito critico più sano. Si tratta di una “sudditanza psicologica” (come direbbero i vecchi nemici della Juventus) tipica dei “bassifondi”.

Anzi, dei “postacci”.

Calabria: giornalisti di frontiera

febbraio 9, 2010

Gianluca Ursini ha scritto per PeaceReporter un articolo in cui si parla anche di me. Nel ringraziarlo immensamente per le parole dedicatemi vi copio e incollo il testo del pezzo:

Ad Antonino hanno bruciato l’auto. Due giorni dopo il suo 25esimo compleanno; sotto casa sua , a Reggio. Aveva scritto sul suo blog che dopo l’arresto di alcuni del clan De Stefano (un tempo il più potente in riva allo Stretto) fuori dalla Questura c’erano altri membri del clan, in teoria latitanti, a gridare ingiurie contro “Sbirri, mmerdi e cunfidenti”(la triade del disonore per un buon ‘ndranghetista). Era venerdì scorso. Domenica il suo ex collega di redazione al coraggioso giornale online Strill.it, Claudio Cordova, dall’alto dei suoi 23 anni, di cui 5 passati a seguire i processi di Ndrangheta tra Reggio, Palmi e Locri, ha parlato di “lupi e conigli”. Mafiosi che hanno l’istinto del lupo, e azzannano tutti coloro che osano alzare la testa contro di loro. Ma che agiscono come conigli. Seguono Antonino fin sotto casa, aspettano che vada a dormire, per cospargere la Fiat di benzina e appiccare fuoco. E il coraggio di scrivere questo, fa di Claudio un piccolo, grande uomo di 23 anni; il coraggio che tanti direttori di giornale, magari presidenti delle società pro ‘Ponte sullo Stretto’ Spa, in queste terre desolate non dimostrano da decenni. Antonino fa il blogger ora, e non fa altro che andare telecamera in spalla a seguire processi scomodi per blog scomodi, come quello di Di Pietro o di Beppe Grillo. Ultimamente sta seguendo ogni udienza del processo Dell’Utri sui legami tra politica e mafia.

“Fatevi i cazzi vostri”. Lo stesso coraggio del proprio mestiere dimostrato da Michele Albanese, redazione di Rosarno de “Il Quotidiano di Calabria”. Venti giorni fa ha ricevuto la busta coi proiettili, “Fatti i cazzi tòi”, oppure ti ammazziamo, era il succo. Perché aveva scritto degli interessi mafiosi dietro la cacciata dei neri dalla Piana di Gioia. Uguale la busta coi proiettili recapitata al giudice Giuseppe Lombardo dell’Antimafia di Reggio, con 4 proiettili il 24 gennaio: “Fatti i cazzi tòi, o fai la fine di Falcone”. Lombardo aveva fatto arrestare, in 4 anni, prima il capo latitante dei ‘dominanti’ De Stefano e, scalzati loro, Pasquale, capofamiglia dei Condello, detto U supremu, arrivato al vertice del potere ndranghetista. Come il procuratore di Crotone Pierpaolo Bruni, che ha aperto mille inchieste tra mafia e politica. E’ giovane, ha 30 anni, si muove in scooter; gli hanno fatto trovare due giorni or sono sul sellino due caricatori di P38 svuotati.E un messaggio di posta elettronica che minaccia morte. Tre settimane fa aveva fatto sequestrare beni per decine di milioni a diversi clan nell’operazione ‘Heracles’. Gente che ha il coraggio di non calare la testa davanti ai cani che stanno colonizzando una regione a raffiche di kalashnikov. Come Angela Corica, che scrive da Cinquefrondi, due passi da Rosarno, per “Calabria Ora”, giornale progressista. Un anno fa cinque colpi di pistola contro la sua auto.

Politici contro cemento e calcestruzzo Oppure ci sono i sindaci coraggio come Enzo Saccà a Santa Cristina d’Aspromonte, 4mila anime. Saccà è in predicato di guidare un consorzio di diversi comuni della provincia di Reggio, che vuole gestire i fondi pubblici senza inquinamenti mafiosi. Per lui una settimana fa, 5 proiettili in busta. Il sindaco non molla. Come non si era dimessa la giunta di Polistena, paesino vicino Rosarno, dopo che nel febbraio 2009 il sindaco aveva trovato un mazzo di crisantemi adagiato sul cofano del suo veicolo; segnali premonitori per chi non vuole collaborare con le ditte mafiose. O come non si era dimesso il sindaco di Villa San Giovanni Giancarlo Melito dopo che in un mese gli avevano prima bruciato una vettura, e poi fatto trovare dei candelotti inesplosi sul cofano della seguente. Il suo addetto stampa, Saro Bellé, uno che ha sempre fatto giornalismo per una corrente politica, ma con chiarezza contro le logiche spartitorie degli appalti, ci ha scherzato su: “Ho consigliato al sindaco i concessionari di seconda mano dove mi rivolgo io: a me ne hanno bruciate 3 in 5 anni, e nessuna assicurazione mi ripaga. Non me le posso permettere di prima mano”. Melito e la sua giunta non volevano il Ponte sullo Stretto e i miliardi di euro che finiranno nelle tasche delle cosche che producono calcestruzzo, costruiscono pilastri in cemento, sbancano colline e movimentano scarti e inerti.

Non è finita qui. Un messaggio per tutti i giovani professionisti, i praticanti, gli stagisti che si stanno affacciando alla professione giornalistica. Fate come Claudio Cordova a Antonino Monteleone, come Angela Corica, come tanti altri ragazzi del Sud. Molto più di uno stage in un grande giornale, vi sarebbe utile venire qui. Giù, al Sud.
Venite tutti in Calabria, in Sicilia. proverete la sensazione appagante di ‘esserci dentro’, qui e ora, di vivere finalmente il giornalismo come impegno. E’ questa la prima linea, è qui che bisogna essere. Capirete che i boss temono tanto le nostre tastiere e le nostre pennette Usb, quanto i sequestri dei loro beni disposti dalle procure. Finché ci sarà gente come Claudio e Antonino pronta sul Web a fare ‘’nomi, cognomi e soprannomi” dei tre giudici della Procura generale reggina che prima erano disposti a scarcerare su richiesta i boss delle cosche.

Le nostre pennette, le nostre tastiere, valgono tanto quanto i loro bazooka, i kalashnikov, gli Uzi, le Glock e le P38 e le lupare calibro 12. Come ci ha insegnato il sacrificio di un ragazzo 25enne vent’anni or sono: Giancarlo Siani.

Storia di un banale, drammatico, errore giudiziario

gennaio 18, 2010

da www.strill.it

C’è un uomo. Si chiama Francesco Spanò e ha 39 anni. Francesco Spanò è nato a Taurianova, ma vive a San Ferdinando, un paese di 4500 anime che si affaccia sul golfo di Gioia Tauro.

Lo arrestano nell’ambito dell’operazione “Maestro”. 

L’operazione Maestro è di quelle che, solitamente, vengono definite “brillanti”. Il blitz del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri scatta all’alba del 22 dicembre 2009. In manette finiscono 27 indagati. L’indagine, condotta dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, ricostruisce gli equilibri mafiosi della Piana di Gioia Tauro.

Quella di Gioia Tauro è una zona calda, dove gli affari portano, assai spesso, a fatti di sangue, dove, sempre in nome degli affari, le alleanze cambiano facilmente. I legami, anche quelli che sembravano indissolubili, si spezzano in pochi istanti: come accade il 1° febbraio del 2008, quasi due anni fa, quando viene assassinato Rocco Molè, il reggente dell’omonimo clan da sempre alleato all’altra cosca storica di Gioia Tauro, la famiglia Piromalli.

Alla base dell’assassinio di Rocco Molè, infatti, vi sarebbero proprio gli intrighi riguardanti le spartizioni degli affari e del denaro. Soprattutto degli affari e del denaro del porto di Gioia Tauro: e gli inquirenti ipotizzano che dietro tale, clamoroso, omicidio vi sia proprio la famiglia Piromalli.

Ma torniamo all’operazione “Maestro”.

Oltre al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, gli inquirenti ipotizzano anche l’associazione per delinquere finalizzata all’introduzione in Europa di ingenti quantitativi di merce contraffatta, con l’aggravante della transnazionalità, ed altri reati doganali. I Carabinieri sequestrano beni per cinquanta milioni di euro.

L’indagine colpisce, in particolare, i presunti affiliati alla cosca Molè.

Tra gli arrestati c’è anche Francesco Spanò, 39 anni, originario di San Ferdinando. Spanò finisce in carcere, come gli altri indagati, il 22 dicembre: trascorre in carcere il Natale, il Capodanno e l’Epifania.

Trascorre in carcere gran parte delle festività natalizie.

Ma c’è un particolare. Francesco Spanò con l’indagine “Maestro”, con la cosca Molè, con la ‘ndrangheta, non c’entra nulla.

Cosa che, peraltro, Francesco Spanò afferma fin da subito. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Spanò, infatti, nega di aver mai intrattenuto alcun tipo di rapporto con individui ritenuti affiliati alla cosca Molè.

Gli avvocati di Spanò, Giuseppe Bellocco e Mario Virgillito, il 5 gennaio depositano un’istanza di revoca della misura cautelare. Sulla scorta di una nota del ROS dei Carabinieri, anche il pubblico ministero che cura l’indagine dà parere favorevole: il Gip Domenico Santoro ordina l’immediata scarcerazione di Spanò.

C’è stato un errore.

Il 30 novembre del 2007 gli investigatori ascoltano un’intercettazione telefonica. Da un capo del filo c’è Antonino Molè, classe 1989. Dall’altra parte, invece, c’è un soggetto identificato come “Ciccio”. Nella conversazione Molè indica al proprio interlocutore di aver suonato per errore a Domenico, “soggetto – come si legge nel dell’ordinanza di revoca della misura cautelare – presente nello stabile ed evidentemente conosciuto da entrambi gli interlocutori”. Il “Domenico” altri non è che Domenico Stanganelli, cugino di Antonino Molè, che dimorava proprio insieme con “Ciccio”.

Ma quel “Ciccio” non è Francesco Spanò. E’ scritto nel decreto di revoca della misura cautelare: “…i successivi accertamenti in proposito delegati dal PM hanno evidenziato come utilizzatore dell’utenza …. coinvolta nelle conversazioni poste a fondamento della richiesta, intercorse tra Antonino Molè, classe 1989, e il soggetto denominato Ciccio, debba ritenersi altro soggetto, diverso da Francesco Spanò”.

Uno scambio di persona.

No, Francesco Spanò non doveva finire in carcere. C’è stato un errore. Un errore che verrà risarcito economicamente in virtù delle leggi che regolamentano l’ingiusta detenzione in carcere, ma che, sicuramente, segnerà per molto tempo la vita di Francesco Spanò, sbattuto in prima pagina da tutti i media, e dei suoi familiari, costretti a trascorrere, come dice il fratello della vittima, “un Natale buio”.

Quella di Spanò è una storia calabrese. Una storia brutta.

Una storia che non deve intaccare la fiducia nelle Istituzioni, nella Magistratura e nell’Arma dei Carabinieri che, giorno dopo giorno, lottano, con coraggio e dedizione, soprattutto in territori come quelli della Piana di Gioia Tauro, contro la criminalità organizzata.

Sangue e manette fanno vendere più copie. Ma quella di Francesco Spanò è una storia che l’onestà impone di raccontare.

Per fornire una voce a chi non ce l’ha. Per restituire la dignità rubata a un essere umano, trattato come un criminale.

Come qualcosa che non è.